Sembrava che la pandemia da coronavirus stesse ormai rallentando, invece da alcune settimane i casi sono tornati ad aumentare e con essi anche le ospedalizzazioni. A far crescere i numeri, spiegano gli esperti, è la nuova variante Omicron 5, ritenuta più contagiosa delle precedenti. In particolare, al momento la sottovariante BA.5 è la Omicron prevalente sul pianeta. “L’andamento attuale induce ad avere qualcosa di più di un sospetto su una nuova ondata, si spera modesta, rappresentata dall’arrivo e dall’espansione di un’ulteriore variante, Omicron 5” sostiene l’infettivologo Massimo Galli in un’intervista per Rainews. “Quanto siano veramente più buone le varianti Omicron” o “quanto siano veramente più difesi gli ospiti”, cioè le persone grazie ai vaccini, “non è ancora possibile dirlo. Verosimilmente la strategia di queste nuove varianti va verso una minore patogenicità. Piaccia o non piaccia – ha detto ancora l’infettivologo – la storia con il virus ancora non è finita”.

La variante 5

Omicron 5 colpisce i vaccinati ma anche chi ha avuto altre varianti della stessa Omicron. L’infezione con la variante 5 è caratterizzata da forte raffreddore e forte mal di gola, e non “scende” nei polmoni. C’è una minore incidenza dei disturbi di gusto e olfatto. La febbre può essere elevata e accompagnata da dolori muscolari e alle articolazioni, come nell’influenza. Il sintomo del mal di gola forte può avere una durata variabile dai 3 giorni alle due settimane, e caratterizza anche il long-Covid così come la spossatezza. Sebbene la variante Omicron sembri avere sostanzialmente una probabilità inferiore di causare long- Covid rispetto alle varianti precedenti, i dati dello studio del King’s College di Londra, pubblicato su The Lancet, dimostrano che una persona su 23, una volta contratta la malattia,  continua ad avere sintomi per più di 4 settimane. E questo dato può essere destinato a crescere vista la contagiosità di Omicron e delle attuali sottovarianti. L’unità di day hospital della Fondazione Policlinico Universitaria Agostino Gemelli di Roma che segue i pazienti con Covid-19 in fase post-acuta, in uno studio condotto su 658 pazienti, ha osservato una correlazione diretta tra incremento del rischio di disfunzione endoteliale e severità dell’infezione da Covid-19. In particolare, i soggetti ospedalizzati per Covid-19 hanno mostrato un’alterata funzione endoteliale tre mesi dopo la fase acuta con una compromissione della funzione polmonare.

L’endotelio

L’endotelio, tessuto di cellule che rivestono le pareti interne del cuore e dei vasi, modula l’aggregazione piastrinica, i processi coagulativi, contribuisce all’immunità innata, riduce l’infiammazione, regola le resistenze vascolari, protegge mediante antiossidanti dall’effetto nocivo dei radicali liberi dell’ossigeno. Risulta dunque fondamentale preservarne e migliorarne la funzione. Attraverso una sperimentazione nella terapia sub-intensiva Covid dell’ospedale Cotugno di Napoli ed un lavoro scientifico e di ricerca portato avanti nell’ambito del consorzio Itme (International Translational Research and Medical Education), creato dall’università Federico II in collaborazione con l’Albert Einstein Institute of Medicine di New York e l’importante coinvolgimento di Damor Farmaceutici, si è riusciti a dare impulso alla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici dell’infezione da Sars-Cov2, con particolare riferimento alla disfunzione dell’endotelio che il virus può creare. Nel corso del lavoro realizzato da Itme, Cotugno, Damor, pubblicato su Eclinicalmedicine, gruppo The Lancet, si è evidenziato che nei pazienti ricoverati con infezione grave da Covid 19 supportando le tradizionali terapie farmacologiche con la supplementazione di L-arginina, aminoacido che presiede la produzione di ossido nitrico e citrullina da parte della cellula endoteliale, si sono dimezzati i tempi di degenza ospedaliera e si è ridotta la necessità del supporto ventilatorio. Nella collaborazione tra Itme, Damor e Policlinico Gemelli di Roma sono stati messi in luce i presupposti per un trattamento utile con L-arginina anche nella fase post-Covid, così come ricerche in corso presso l’istituto Albert Einstein di New York stanno chiarendo i meccanismi fisiopatologici per la prevenzione della patologia virale e nella terapia del long-Covid.