È una patologia ‘misteriosa’ l’emocromatosi, anche perché poco nota al grande pubblico, sebbene più diffusa di quanto si possa pensare. Nei Paesi del Nord Europa, dove è molto più frequente che al sud, la chiamano la ‘maledizione Celtica’. In passato ha colpito anche delle celebrities, del calibro di Beethoven; il decesso del grande compositore secondo alcuni sarebbe infatti da attribuire ad una una cirrosi epatica, determinata da un mix di emocromatosi e alcol. L’emocromatosi è una malattia genetica che porta l’organismo ad assorbire troppo ferro e ad accumularlo in una serie di organi (fegato, pancreas, ipofisi, articolazioni, cuore, ecc) che ne vengono progressivamente danneggiati. Molto frequente sin dall’antichità in Gran Bretagna e in Irlanda (qui la malattia è stata rintracciata anche in una donna del neolitico vissuta 5 mila anni fa e in un uomo dell’età del bronzo di 4 mila anni fa), in Italia interessa circa 1 persona su 500 abitanti in alcune aree del nord e 1 su 2000-3000 abitanti nel centro-sud; i maschi sono colpiti 4 volte più delle femmine. Si stima che il 2% dei nostri connazionali sia portatore (‘carrier’) del gene malato (mutazione C282Y) alla base della forma più frequente, la cosiddetta emocromatosi HFE. La malattia si trasmette per via autosomica recessiva e compare, dunque, solo se entrambi i genitori trasmettono al figlio il gene malato.
Aggiornamento delle linee guida
Negli ultimi anni si sono andate accumulando una serie di conoscenze riguardanti questa malattia antica. Per questo la European Association for the Study of the Liver (Easl), che ha di recente tenuto il suo congresso annuale a Londra, ha incaricato un panel di esperti internazionali di aggiornare le linee guida sull’emocromatosi, ferme alla versione 2010. Tra gli esperti che hanno preso parte alla stesura delle linee guida 2022, la professoressa Elena Corradini, associato di medicina interna all’Università di Modena e Reggio Emilia, nonché componente del consiglio direttivo della Società italiana di medicina interna, per la sezione Emilia Romagna-Marche. “Il primo punto che abbiamo aggiornato in questa nuova versione – spiega la professoressa Corradini – è la definizione stessa di emocromatosi, che nelle nuove linee guida è: ‘una malattia di origine genetica caratterizzata da un aumento della saturazione della transferrina e da un progressivo sovraccarico di ferro (soprattutto nel fegato), in assenza di anemia o reticolocitosi’. Questa nuova definizione mette in luce che, alla base di questa malattia, c’è un deficit di sintesi o di funzione dell’epcidina, un ormone prodotto dal fegato, implicato nella regolazione del metabolismo del ferro (ne regola l’assorbimento dall’intestino e ne controlla il rilascio nel sangue da parte delle cellule che si occupano di riciclare il ferro che deriva dai globuli rossi invecchiati)”.
Campanelli d’allarme
Questo difetto provoca un aumento del ferro circolante, con conseguente progressivo accumulo negli organi. Il primo campanello d’allarme per la diagnosi di questa malattia compare nelle analisi del sangue ed è un’aumentata saturazione della transferrina, la proteina che trasporta il ferro al midollo osseo e a tutti i tessuti. “Questa proteina circolante – spiega la professoressa Corradini – è molto ‘carica’ di ferro e questo avviene perché c’è troppo ferro in circolo; nell’emocromatosi è proprio un eccesso di questo ferro circolante a causare un progressivo danno agli organi, che si sovraccaricano di ferro. Per questo è così importante la diagnosi precoce, perché ci permette di fare diagnosi di emocromatosi quando la malattia è presente ancora solo nelle analisi del sangue, allo stadio cioè di sovraccarico ‘biochimico’, o in uno stadio iniziale con un modesto aumento del contenuto di ferro nel fegato, prima che si arrivi ai danni da accumulo di ferro a carico dei vari organi. Un paziente con emocromatosi HFE diagnosticata in fase precoce ha la stessa aspettativa di vita della popolazione generale. Diverso il discorso per le cosiddette forme giovanili della malattia, più rare e legate ad altre mutazioni, che hanno un decorso molto più grave”.
I principali danni d’organo in corso di emocromatosi
“L’emocromatosi – spiega la professoressa Corradini – è una malattia sistemica, che coinvolge cioè tutto l’organismo. Il principale organo target dell’accumulo di ferro è il fegato che presenta inizialmente una fibrosi, che può progredire a cirrosi e a tumore. Ma il danno d’organo si estende alle articolazioni (i pazienti lamentano spesso dolori articolari, soprattutto a livello di mani, polsi, caviglie ed anche), al sistema endocrino, in particolare al pancreas (con sviluppo di diabete) e all’ipofisi (la malattia determina ipogonadismo ipogonadotropo, cioè un’insufficienza testicolare o ovarica legata ad un malfunzionamento dell’ipofisi) e può colpire anche il cuore (cardiomiopatia da ferro), dove determina alterazioni della contrattilità del muscolo cardiaco e della conduzione elettrica che possono portare allo scompenso cardiaco ed all’impianto di un pacemaker; la cute dei pazienti presenta infine una caratteristica sfumatura color ocra. L’emocromatosi HFE, legata alla mutazione C282Y, è la forma più comune tra gli europei, ed è caratterizzata soprattutto dal danno epatico e articolare (solo nelle forme più avanzate e gravi emerge anche il danno endocrino e più raramente quello cardiaco). Esistono però anche forme più rare e severe di emocromatosi, soprattutto quelle ‘giovanili’ che già nella seconda-terza decade di vita portano alla comparsa di cardiopatia ed endocrinopatia da ferro con ipogonadismo e diabete”.
L’iter diagnostico
Il primo campanello d’allarme, il biomarcatore più precoce da valorizzare, è quindi l’aumentata saturazione della transferrina causata da un aumento del ferro circolante (negli esami del sangue sarà visibile anche un aumento del ferro sierico o sideremia). Un’altra spia molto importante per il medico nelle analisi del sangue è l’aumento della ferritina. “Nel paziente con ferritina alta – spiega la professoressa Corradini – è sempre importante richiedere il pannello completo dell’assetto marziale (sideremia e transferrina per calcolare la saturazione della transferrina, ferritina). È importante a questo punto valutare l’emocromo e i reticolociti. Se l’emocromo è normale, in presenza di aumento della saturazione della transferrina e della ferritina, ma anche in presenza di un isolato aumento della saturazione della transferrina non spiegato da altra causa, va presa in considerazione la diagnosi di emocromatosi, che va confermata con il test genetico di primo livello, che prevede la ricerca della variante C282Y del gene HFE nella popolazione di origine europea. Non è più necessario fare la biopsia epatica per la diagnosi di questa condizione”. Per la diagnosi, dunque, basta un semplice prelievo di sangue, ma è importante sospettare la presenza di questa condizione, magari sulla base di analisi del sangue di routine che rivelino un aumento della sideremia, della saturazione della transferrina e della ferritina in presenza di un emocromo normale. Anche in caso di segni di malattia del fegato, riscontrati in esami del sangue, esami strumentali o visitando il paziente, è indicato inserire fra le indagini diagnostiche l’assetto marziale completo. “Tra le novità delle ultime linee guida – aggiunge la professoressa Corradini – c’è anche l’utilizzo della risonanza magnetica per valutare l’accumulo di ferro negli organi e in particolare misurarne la concentrazione nel fegato; l’altra novità riguarda la genetica, che è stata estesa alla ricerca di altri geni che si associano a forme più rare di emocromatosi”.
I primi sintomi
Le prime manifestazioni cliniche sono stanchezza, affaticabilità e dolori articolari (soprattutto a carico di secondo e terzo dito delle mani, caviglie, polsi, anche). Il danno al fegato può rimanere asintomatico per molti anni. Nel tempo possono comparire una colorazione bronzina della pelle e i sintomi delle alterazioni endocrine. “Il nostro scopo – sottolinea la professoressa Corradini – è però quello di fare diagnosi in fase preclinica, quando sono presenti solo le alterazioni delle analisi del sangue, quando cioè il paziente ha ancora solo un eccesso di ferro circolante eventualmente associato ad un modesto accumulo nel fegato nelle fasi iniziali di malattia, ma non si sono ancora manifestati i danni d’organo da accumulo di ferro”.
La terapia
“Non ci sono per ora grandi novità in questo campo – afferma la professoressa Corradini – la terapia di prima linea in questi pazienti rimane dunque affidata ai salassi ripetuti (una volta ogni 1-2 settimane nella fase di ferro-deplezione, poi ogni 2-6 mesi nella fase di mantenimento per prevenire il riaccumulo); questa pratica presenta poche controindicazioni ed effetti collaterali ed è efficace nel prevenire il danno d’organo e addirittura farlo tornare indietro, almeno quando non abbia raggiunto una fase troppo avanzata, in una parte dei pazienti. Un’altra opzione terapeutica è l’eritrocitaferesi (la rimozione di una parte di globuli rossi dal sangue). I farmaci chelanti del ferro vengono utilizzati nelle forme più gravi o laddove non sia possibile fare i salassi. Sono tuttavia in corso dei trial clinici – anticipa la professoressa Corradini – che prevedono l’utilizzo di epcidina sintetica o di epcidino-mimetici per supplementare il paziente con l’ormone deficitario nell’emocromatosi. Ma ci vorrà ancora tempo prima che arrivino alla pratica clinica. La salasso-terapia tratta e previene le conseguenze dell’emocromatosi, cioè il sovraccarico di ferro, ma non è una terapia eziologica, curativa del difetto fisiopatologico. Questa nuova generazione di terapie mira invece al difetto fisiopatologico che è la carenza di epcidina”. “L’emocromatosi è una malattia genetica che comporta gravi conseguenze se non è riconosciuta tempestivamente e trattata in modo adeguato – commenta il presidente della Società italiana di medicina interna – è una patologia internistica che colpisce molti organi e che trova in Italia centri di eccellenza internazionale per lo studio delle cause e dei trattamenti come quello della medicina interna all’Università di Modena e Reggio Emilia. La presenza della professoressa Corradini esponente della Società italiana di medicina interna nel panel di esperti che ha redatto le nuove linee guida della EASL costituisce non solo un prestigioso riconoscimento individuale ma anche un attestato dell’elevata qualità scientifica della medicina interna italiana”.