Qualche dubbio in più potrebbe emergere a fronte di farmaci bio-tecnologici, che nelle malattie autoimmuni sono sempre più diffusi e sviluppati, ma talvolta indeboliscono il sistema immunitario. In un recente studio emerge che almeno un paziente su 5 affetto da MICI deve essere sottoposto a terapie con farmaci biologici: non è quindi un tema di nicchia. Considerando poi che i trattamenti sono perlopiù in età giovanile, forse la percentuale per le donne in gravidanza aumenta. “Anche in merito ai farmaci bio-tecnologici, possiamo affermare che sono fondamentali per l’equilibrio dell’organismo e una loro interruzione rischia di avere effetti negativi – spiega Daperno –. In particolare, dopo 3-6 mesi di interruzione, la malattia ha almeno il 50% delle probabilità di recidivare, con effetti dannosi sul feto e sul benessere psicofisico della madre. In secondo luogo, come si evince da dati di laboratorio, fino a un certo punto della gravidanza, tra il 4° e il 6° mese, i pori della placenta sono talmente piccoli che gli anticorpi della mamma non possono passare al figlio, né i suoi, né quelli terapeutici: ciò significa che un atteggiamento estremamente prudentemente, frequentemente adottato nel nostro Paese, è quello di trattare la mamma con farmaci anche particolarmente forti fino al periodo che garantisca il non passaggio del farmaco al figlio, quindi fino 4°-5°-6° mese, per poi interromperlo nell’ultimo trimestre di gravidanza, allorquando si valuterà il calcolo rischio-beneficio. Per molti farmaci, come adalimumab e infliximab, ci sono enormi casistiche di donne trattate fino alla fine della gravidanza senza eventi avversi in termini di abortività, sebbene si denoti una correlazione con una nascita precoce”.

Per il video intervento: https://youtu.be/xwW6HtwWZ5I