Ospitiamo l’intervento della dottoressa Simonetta Molinaro, farmacista territoriale, criminologo forense e mediatore di conflitti.

“Da vent’anni mi occupo di adolescenze perdute. Di quelle adolescenze che si dipanano tra i corridoi di un carcere minorile, tra le righe di una sentenza che decreta una messa alla prova, tra le lacrime di una madre che vede il proprio figlio partire per andare in un posto dove per abbracciarlo dovrà chiedere il permesso, tra i fogli di un diario che solo i più coraggiosi riusciranno a scrivere, non piegandosi alla vergogna per qualcun altro che ti dice “femminuccia”. Sono quelle adolescenze di ragazzi spesso non amati, o amati male. Amati senza pazienza, senza strumenti, senza tempo, senza soldi.
Sono quelle adolescenze di ragazzi spesso non voluti, per i quali in certe case non c’era neanche lo spazio per un lettino, figuriamoci per un abbraccio o una condivisione o una carezza. Forse, un piatto di pasta.
Sono quelle adolescenze di ragazzi che hanno perso il tempo giusto e che non sono neanche buoni per essere adottati perché troppo grandi, e non abbastanza teneri o belli da soddisfare il bisogno di genitorialità di certe persone. L’egoismo di genitorialità. È cominciata così.
Mi aveva chiamata un amico. Mi aveva chiesto di riorganizzare un armadio farmaceutico all’interno di una comunità di recupero. Ragazzi, tutti maschi, dai quattordici anni fino ai diciotto. Ne avevo paura all’inizio. Mi irritava quel desiderio assoluto che avevano di compiacere l’adulto, e la perfetta consapevolezza dell’autorità che rappresentavo mi infastidiva. Avrei preferito un rapporto più autentico e mi pesava molto dover rispettare un ruolo e necessariamente mantenere le distanze, per la mia sicurezza mi avevano spiegato, perché erano ragazzi di un’età pericolosa, un’età focosa, un’età priva di limiti e confini ma piena di desideri tutti inespressi e, anzi tutti frustrati.
Ci andavo una volta alla settimana portando con me chili di cioccolatini perché il cibo è un linguaggio universale, e la cioccolata ne è la punteggiatura. Li riconoscevo da come bussavano alla porta. Capivo se, da lì a qualche minuto, avrei dispensato fermenti lattici per mali di pancia che non avevano mai fine pur non avendo un’apparente motivazione, asciugato lacrime, rimproverato, scritto una lettera, o accorciato capelli, anche. Per tutti, una carezza e un cioccolatino. A nessuno ho mai chiesto perché fosse lì e, quando me lo hanno voluto raccontare, mai ho espresso un giudizio.
Quell’armadio era diventato come la tela di Penelope. Lo riempivo e lo svuotavo continuamente, guadagnando giorni, preziosi per condividere emozioni e risate. Fino a quando non è arrivato il momento di partire, un trasferimento per lavoro, su al Nord. La festa, la torta, altre lacrime stavolta senza pudore. E il “capo” che dice: “Dottore’… grazie che ci hai trattato normale”.