Nell’immaginario prevalente, il ruolo del farmacista resta ancora stereotipato giacché questa figura è in larga parte identificata con quella di un mero commerciante e dispensatore di farmaci. Tuttavia, con l’emergenza Covid, le farmacie, accanto alla vendita di prodotti della farmacopea e alla pluralità di servizi garantiti – dalla misurazione della pressione agli screening per alcune forme tumorali, dai servizi diagnostici come l’holter pressorio e cardiaco al monitoraggio di alcune patologie croniche come il diabete, fino ai servizi di telemedicina e prenotazione – hanno svolto un ruolo molto più ampio, sia nella gestione di richieste atipiche legate al disorientamento dei pazienti in una situazione dei presidi sanitari e territoriali vicino al collasso, sia nella diffusione rapida di informazioni sui metodi di prevenzione e consigli sui comportamenti da adottare nei confronti del pericolo di contagio da Sars-Cov2.

A rivelare, nei dettagli, il ruolo strategico delle farmacie italiane assunto già nella fase acuta della prima ondata dell’epidemia in Italia, nel periodo febbraio-maggio 2020, è una ricerca svolta da un team di ricercatori della Società Italiana di Farmacia Clinica di Sassari, e delle università di Cagliari e “Humanitas” di Milano, appena pubblicata nel numero primaverile della rivista internazionale International Journal of Clinical Pharmacy. Dall’indagine, basata sui risultati ottenuti dalle risposte a un questionario somministrato a 169 farmacie disseminate sul territorio nazionale, emerge che esse, soprattutto nel corso dei 75 giorni del lockdown nazionale, ma anche all’interno delle prime “zone rosse” dichiarate nel nord Italia nella prima fase dell’insorgenza epidemica e in quelle successivamente stabilite, hanno fornito risposte alle richieste spesso atipiche provenienti dalla popolazione su una molteplicità di fronti.

Risposte alle urgenze nelle zone rosse

In primis, si sono attivate per soddisfare domande urgenti, in un momento in cui cittadini e pazienti si sono trovati improvvisamente ad affrontare problematiche sulla gestione ordinaria o straordinaria della propria salute e di conclamate patologiche patologie acute e croniche che si sovrapponevano al pericolo di contagio e ai conseguenti modelli comportamentali da adottare. Ciò accanto al disagio derivante da strutture sanitarie oberate di casistiche da affrontare e sovente non in grado di rispondere alle richieste pervenute, con un atteggiamento spesso di rinvio al loro accesso anche a causa del timore di infettarsi.

In questo senso, le farmacie, oltre ad essere state i primi esercizi a dotarsi di misure di prevenzione, come i pannelli in plexiglas e gli igienizzanti, hanno attivato servizi suppletivi inusuali, come la consegna a domicilio di farmaci, ricorrendo al supporto sia di volontari sia di società specializzate nel delivery. Accanto a un’attività di indirizzo alla difesa e prevenzione nei confronti del Covid, mediante indicazioni di orientamento anche a fronte delle numerose fake news che circolavano circa le corrette metodiche da adottare, ad esempio riguardo l’utilizzo del cosiddetti Dpi (Dispositivi di protezione individuale), hanno spesso fornito soluzioni d’urgenza, anche mediante consulti telefonici, ai pazienti esasperati dagli studi medici in tilt e irraggiungibili. Ciò, mette in rilievo la ricerca, ha manifestato la sua maggior iniziale incidenza, dovuta alla situazione contingente, nelle aree del Settentrione del Paese dichiarate zone rosse nell’iniziale escalation dell’epidemia. Nello specifico, sottolinea l’indagine, le farmacie, ottemperando alla specifica direttiva del ministero della Salute, si sono attivate per facilitare l’invio della ricetta con il relativo bare code necessaria per l’erogazione di farmaci, attraverso metodiche di tele-trasmissione, eliminando così la necessità di rivolgersi ai medici di base e consentendo una rapida fornitura del prodotto richiesto. Da non dimenticare è anche la distribuzione, garantita dai farmacisti, di farmaci ospedalieri. Non solo. Come ricorda il dottor Michele Scopelliti, 32 anni, farmacista collaboratore in una farmacia di Agrigento e presidente del Mifc, Movimento italiano farmacisti collaboratori, che raggruppa 3mila iscritti ma si pone l’obiettivo di rappresentare gli oltre 30mila collaboratori attivi in Italia, sottolinea che “quando, nel corso dei vari lockdown, moltissimi pazienti bisognosi di farmaci salvavita, come l’insulina, di fronte all’impossibilità ad ottenere il rilascio delle ricette dagli studi medici e con i pronto soccorsi sovraffollati, si sono riversati nelle farmacie, hanno risposto con dispensazioni di urgenza senza ricetta”.

La farmacia come anello di comunità

Nel corso dell’emergenza epidemica, la farmacia, dunque, ha fatto emergere il ruolo da essa svolto non solo di punto di riferimento dei cittadini nelle comunità locali e nei quartieri dei centri urbani, ma anche la sua funzione strategica di collegamento con gli altri servizi socio-sanitari del territorio e di anello fondamentale del Sistema sanitario nazionale. Purtroppo, nel bilancio complessivo dei decessi per Covid, appaiono anche oltre 20 farmacisti. Ma proprio in virtù dell’attività svolta accanto ai titolari delle farmacie private e in quelle comunali, i farmacisti collaboratori portano all’attenzione delle istituzioni il fatto che il loro contratto nazionale “non è più stato rinnovato dal 2013 per coloro che operano in farmacie private (contratto Federfarma) e dal dicembre 2015 per quelli attivi nelle farmacie comunali (Assofarm)”.

Scopelliti, coadiuvato dalla portavoce Cristina Longhini, 39 anni, farmacista collaboratrice a Milano, mette in rilievo il fatto che “la retribuzione oraria di un farmacista collaboratore è di 8 euro per uno stipendio mensile di circa 1.400 euro e per questo proponiamo una remunerazione mista che preveda, accanto a quella assicurata dal titolare della farmacia, un’integrazione del 30 per cento a carico dello Stato, essendo la nostra una categoria che ricopre una posizione attiva di affiancamento al Servizio sanitario nazionale, e anche ad elevato rischio di contagio” come peraltro riconosciuto formalmente dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) nel corso della propagazione epidemica. Per questo, dopo aver chiesto audizione, nel novembre 2020, con Roberto Speranza e Nunzia Catalfo, rispettivamente ministri della Salute e del Lavoro del secondo governo Conte e aver ottenuto un incontro con la Commissione Affari Sociali prima della crisi di Governo, il Mifc intende ribadire la sua richiesta di attenzione al governo Draghi. Soprattutto in un momento storico in cui molte riforme possono essere intraprese e nel quale è in gioco l’assegnazione delle risorse del Recovery Fund.

Lo Stato ci riconosca professionisti sanitari

I farmacisti collaboratori chiedono di essere riconosciuti come professionisti sanitari, «con una formula mista tra il contratto nazionale delle farmacie private e quello del comparto sanitario che, aggiunge il presidente Scopelliti, “ci inquadra come addetti del settore del commercio e invece richiederebbe una remunerazione mista, per il 70% garantita dal titolare della farmacia, e per il 30 per cento dallo Stato in quanto operatori sanitari”. Basti pensare che la convenzione delle farmacie con lo Stato è scaduta, udite bene, nel 1992, e dunque andrebbe rinnovata sulla base del nuovo quadro della sanità. Il movimento, inoltre, ricorda la recente firma del rinnovo del Contratto nazionale dei lavoratori non medici della sanità privata, che sono circa 100mila, sottoscritto da Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl con le associazioni Aris e Aiop, con incremento mensile dello stipendio di 154 euro e differenziale rispetto alla sanità pubblica colmato con contributi di Stato e Regioni. Sulla base di ciò i farmacisti collaboratori, che forse eserciteranno un ruolo anche nella campagna di vaccinazione e potranno diventare vaccinatori, con conseguente necessità di priorità tra le fasce da sottoporre a profilassi, chiedono un intervento pubblico per il riconoscimento del proprio operato a supporto del Servizio sanitario nazionale e il rinnovo della convenzione con lo Stato.