Il tumore del fegato o epatocarcinoma è una delle patologie tumorali con il più alto livello di mortalità nel mondo, con circa 800mila decessi l’anno e un aumento stimato a oltre 1 milione di decessi entro il 2030. Rappresenta pertanto una sfida importante per gli specialisti epatologi. Proprio in questa fase, lo scenario della ricerca, del management e della terapia di questa neoplasia sta mutando in maniera repentina e continua, con farmaci da poco disponibili (o in via di approvazione) in grado di cambiare in maniera drastica lo stato dell’arte nella sua diagnosi e cura. Questo significa che per i pazienti si aprono nuove speranze. Sono questi gli aspetti più significativi delle imminenti iniziative dell’Associazione italiana per lo studio del fegato che precederanno il congresso che si terrà a Roma il 24-25 marzo.

Novità epidemiologiche

La prevalenza e l’incidenza dell’epatocarcinoma non sono mutate recentemente, ma è cambiato l’identikit del paziente. “Il miglioramento delle terapie antivirali o di supporto ai pazienti cirrotici ha permesso ai pazienti con epatopatia cronica avanzata di limitare episodi di scompenso, rendendo sempre più evidente il ruolo dell’epatocarcinoma quale causa di morbilità e mortalità in questi soggetti – sottolinea Mario Masarone, Comitato scientifico Aisf –. D’altro canto, l’epatocarcinoma compare sempre più anche in pazienti non cirrotici, provocando un mutamento totale del paradigma prognostico e diagnostico. Questo fenomeno avviene a causa dell’avanzamento della Metabolic associated fatty liver disease (MAFLD) (in particolare della sua forma progressiva, la steatoepatite non alcolica, non alcoholic steato hepatitis – NASH) che è portatrice di fattori di rischio metabolici e genetici che si aggiungono a quelli classici, che vedono la cirrosi equivalente ad una lesione precancerosa”.

Mario Masarone del Comitato scientifico Aisf.

Nuovi approcci terapeutici

Dopo tanta staticità, stanno emergendo importanti novità anche nelle terapie. “Nell’ultimo decennio, in alternativa a chirurgia e trapianto, vi era un unico farmaco, il Sorafenib, che determinava un significativo anche se modesto beneficio di sopravvivenza – sottolinea Mario Masarone –. Con l’avvento di nuovi farmaci antiproliferativi e di terapie biologiche come le immunoterapie, spesso in combinazione, c’è una prospettiva di multipli trattamenti che permette di migliorare la sopravvivenza dei pazienti, con una percentuale di pazienti che raggiunge significativi tempi di sopravvivenza. Da una parte, si aprono nuove sfide per i clinici, che si devono confrontare con problematiche diagnostiche, gestionali, di stadiazione, che rendono fondamentale l’approccio multidisciplinare e una costante interazione con l’oncologo; dall’altra, nascono grandi opportunità per i pazienti”.

Per il video servizio:https://youtu.be/AD5TxwsckE4